Sin dalle prime manipolazioni del cibo, le comunità agropastorali di cultura appenninica si posero il problema di conservare il più a lungo possibile gli alimenti, mettendo in atto strategie spesso scoperte per caso e specializzate in corso d’uso. Cottura, essiccazione, affumicatura e salatura le procedure applicate per preservare le proprietà nutritive degli alimenti. Il latte, altamente nutritivo e ricavato principalmente da capri-ovini, fu tra i primi alimenti ad essere trattato. Le prime produzioni casearie risalgono, infatti, al II millennio a. C., circa, costituite da formaggi molli ottenuti per ebollizione e coagulazione del latte, previa aggiunta del caglio di origine animale o vegetale (il succo secreto dai rami del fico o del cardo selvatico). Le paste di formaggio così ottenute potevano essere consumate morbide, entro pochi giorni, magari avvolte in foglie di fico, oppure mescolate ad erbe fresche. In alternativa, si riponevano in fiscelle di vimini e private del siero residuo le si lasciava stagionare, previa salatura. L’arrivo dei greci e lo sviluppo delle città magnogreche favorirono la diffusione di nuovi costumi alimentari, come quello di tagliare il vino con il formaggio grattugiato. Dai poemi omerici si apprende, infatti, che il vino mescolato al formaggio caprino grattugiato era un ricostituente per malati e feriti. Anche nelle “bevute in comune” rituali si adottava questa pratica, come si evince da taluni corredi funerari maschili costituiti da spiedi, alari e grattugia per il vino del simposio. I romani affinarono il ciclo produttivo, rispettando le tipicità locali (prodotti caseari italici) e promuovendone la commercializzazione nelle province dell’Impero. Sin dal basso medioevo la pastorizia fu esercitata nelle masserie, destinate a diventare le complesse masserie “di campo e di pecore”, modello di azienda agricola vincente per tutta l’età moderna, specialmente nel tarantino. In esse gli ambienti preposti all’attività casearia erano la “mercia” e il casolare: nel primo, in un grande focolare era sempre pronto il “caccavo”, la pentola di rame stagnato per la bollitura del latte; nel secondo si riponevano a stagionare le forme di cacio. Il calendario agricolo prescriveva che entro il 24 giugno, giorno di San Giovanni, le migliori “pezze” fossero portate dal massaro al “signore”, proprietario della masseria.
(M. G. F.)
(Fonte: Archeoclub d’Italia Pulsano)