“I Titoli che salvarono il Ristretto Riservato di Corato dalle mandrie transumanti nel XVII secolo”.

Al terzo appuntamento, la rubrica settimanale “Le storie nella Storia di Corato: studi, documenti, antichi e moderni, che raccontano il nostro passato.

 

Corato nel XVII secolo era una piccola e tranquilla cittadina pugliese. In un famoso documento notarile del 1608 si attesta che “è piena assai di case, e stanno strette assai per lo gran popolo è gente ch’è nella Terra (la città, n.d.r.) e per essere di poco circuito”. Ma il problema che affliggeva i coratini era la produzione agricola essenzialmente per due motivi:

  • buona parte delle terre era latifondo in mano a proprietari a cui bisognava pagare profumatamente il permesso di coltivarle (in quegli anni Corato era feudo di Antonio Carafa e di sua moglie Beatrice de Rupt);
  • le greggi dei pastori abruzzesi che venivano a pascolare anche nel Ristretto Riservato, un territorio di circa 4 km intorno al paese nel quale i coratini potevano coltivare viti, olivi, mandorli e tenere dei pascoli.

Fino a maggio del 1605, non erano mancati soprusi da parte degli abruzzesi che avevano occupato con arroganza i campi di Corato ed in tutta risposta alcuni coratini avevano invaso svariate zone del Demanio comunale al di fuori del Ristretto dove gli abruzzesi si pagavano il diritto di pascolare, recintandole con pareti a secco per dissodarli o farvi pascolare i buoi aratori. Tutto era cominciato nel 1447 quando il primo re spagnolo del Regno di Napoli Alfonso I d’Aragona, istituì a Foggia la “Dogana della mena delle pecore” sede di riscossione della tassa sulla transumanza delle greggi dall’Abruzzo ai pascoli del Tavoliere. Limitando i diritti di enti, privati e feudatari (che appropriandosi di terreni demaniali vi imponevano pedaggi per pastori e contadini), stabilì il principio, risalente al tempo dei Romani, che soltanto il sovrano poteva concedere l’uso dei pascoli nel periodo dal 29 settembre all’8 maggio, in cui venivano a svernarvi greggi e mandrie da tutte le direzioni, ma specialmente dall’Abruzzo e dal Sannio. L’insediamento era subordinato alla iscrizione in appositi registri e al versamento di un tributo, la cosiddetta “fida”. Con il profitto della Mena delle pecore, che arrivò a fruttare fino a 300.000 fiorini d’oro all’anno, Alfonso I d’Aragona fece diventare Napoli una capitale fastosa e moderna. I funzionari della Dogana avevano suddiviso il territorio pugliese, ai fini di calcolo fiscale, in due zone: il Tavoliere e l’area che si stende dall’Ofanto al Salento attraversando la zona interna della Terra di Bari. All’interno di queste zone un’altissima quota di terre demaniali veniva vincolata esclusivamente all’uso pascolativo (i pascoli detti ordinari). L’insieme dei terreni doganali a pascolo comprendeva in tutta la regione 43 locazioni (per questo negli antichi documenti i pastori abruzzesi venivano chiamati i Locati). A ciascuna locazione si attribuiva un certo numero di pastori con una distribuzione proporzionale dell’erbaggio: perciò ogni pastore era tenuto a denunciare il numero delle bestie in suo possesso ai funzionari addetti ai controlli. Le greggi si spostavano, lungo tre grandi regi tratturi, larghi sino a 111m, che collegavano la Puglia alle stazioni di partenza, Pescasseroli, l’Aquila e Celano. Lungo i tratturi, che comunicavano tra loro grazie a tratturelli (larghi dai 18m ai 37m) e a bracci di dimensioni ancora minori, si aprivano i riposi laterali destinati ad ospitare gli armenti durante il viaggio. Le greggi, in autunno (all’inizio di novembre), prima di entrare nelle locazioni assegnate, erano trattenute in vaste aree, i riposi generali, dove gli animali potevano partorire e trattenersi prima di essere smistati nelle locazioni dei pascoli invernali. Tutto questo movimento di quadrupedi che scendeva all’inizio dell’autunno verso la grande pianura di Puglia (da un minimo di 900.000 ovini nel 1441 ad un massimo di 5500.000 ovini nel 1604) condannò irrimediabilmente l’agricoltura in Capitanata, spingendo più che in passato, gli uni contro gli altri, pastori e contadini, proprietari di pascoli locati e comunità locali, feudatari e pecorai, causando l’accentramento della gente agricola in pochi grandi insediamenti. A Corato i guai arrivarono quando verso il 1450 Alfonso I d’Aragona aggregò definitivamente il suo demanio ai luoghi di riposo degli animali dei locati della Regia Dogana di Foggia; il suo territorio venne a trovarsi nel riposo chiamato delle “Murge”, formato da terre dell’area di Bitonto, Ruvo, Corato, Andria e Minervino. La comunanza e reciprocità di usi tra i cittadini di Corato e i pastori abruzzesi non tardò a generare inconvenienti. I coratini avevano assoluta necessità di piantagioni e aree coltivabili per cui, dopo innumerevoli liti, chiese di escludere dalla comunanza del pascolo e dagli usi comuni la terra più vicina all’abitato. Con decreto del 28 settembre 1517 la Regia Camera della Sommaria ammise la domanda e ordinò che fosse tenuto esente dagli usi reciproci e specie dalla voracità del bestiame, tanta parte di quel territorio compresa in una circonferenza del raggio di due miglia (circa 4 km) tutto intorno al paese. A questa zona fu dato il none di Ristretto Riservato, in cui si fissarono alcuni punti, ponendovi “iscrizioni lapidarie”. Gli abruzzesi non mancarono però di invaderla, fino a che nel 1605 il sindaco e gli amministratori coratini (Domenico Tandoi, Marino Antonio Ferruccio, Francesco Ferruccio, Pietro Iacopo Buccio e Hercole Lanzalonga) presentarono un ricorso al Viceré chiedendogli di riconoscere ai coratini l’intera proprietà del Ristretto Riservato. Il Vicerè di quel tempo, don Juan Alfonso Pimentel d’Errera (in carica dal 1603 al 1610), conte di Benavente (Spagna) e viceré de Regno di Napoli, inviò il ricorso alla Regia Camera della Sommaria, a Foggia, il tribunale in cui si discutevano questioni demaniali. La Sommaria accolse la domanda previo pagamento annuo di 400 ducati al fisco. Il comune di Corato, stretto dal bisogno, purtroppo, dovette accettare ed entro il 1605 fu transatta la lite sul Ristretto e con l’approvazione del re spagnolo Filippo III esso divenne proprietà dell’Università di Corato e i vecchi cippi con le iscrizioni lapidarie furono sostituiti con alti termini di fabbrica, i Titoli. Essi furono posti nei pressi dei tratturi in modo tale da far deviare il percorso delle greggi, permettendo ai coratini di coltivare tranquillamente le proprie terre.

DESCRIZIONE DEI TITOLI.  I Titoli rintracciabili nelle campagne di Corato, sono costruzioni a forma di parallelepipedo, misuravano circa 4,5m di altezza per 1,57m di larghezza e 1,02m di profondità, rivestiti sui quattro lati con pietra da taglio conformata a bozza. Una cornice di pietra dello spessore di 12cm (detta toro) è presente su tutti i quattro i lati a circa 1,50m, sulla quale, nella parte frontale, poggia un’epigrafe sovrastata dallo stemma asburgico, mentre sul lato minore rivolto verso la città c’era il cuore dell’antico stemma di Corato. La parte superiore terminava con una cornice sulla quale faceva cappello un tettuccio a cuspide a mo’ di timpano costruito con pietre calcaree poste a cortina. Ad oggi i Titoli presenti sono 6, versano in totale stato di abbandono, in condizioni differenti e sono così dislocati.

Titolo SP 30: è posizionato a destra della strada in direzione Canosa (antica via Traiana) mancano sia l’scrizione che lo stemma di Corato, lo stemma asburgico è presente ma molto logorato. Questo Titolo è l’unico ad aver conservato nella parte superiore alcuni conci che formavano il tettuccio.

Titolo SC Boccotero: è posizionato a sinistra della strada in direzione Andria. Rispetto agli altri Titoli ha dimensioni maggiori, infatti misura 1,80m di larghezza per 1,30m di profondità, è privo dello stemma asburgico mentre l’iscrizione, anche se manca l’estremità sinistra è ben leggibile ed è l’unico dove si è conservato l’antico stemma di Corato, molto abraso ma in cui si può riconoscere il contorno di un cuore. La parte superiore del tettuccio è mancante.

Titolo via Giappone: è formato da conci di grandi dimensioni, collocato quasi al centro della strada, privo dell’epigrafe, dello stemma asburgico e dello stemma di Corato, la parte superiore destra è crollata.

Titolo via Mangilli: è collocato a destra della strada in direzione Bisceglie; la superfice della pietra risulta molto logorata, è privo dell’epigrafe, dello stemma asburgico e dell’iscrizione, la parte superiore è totalmente mancante.

Titolo strada esterna Serrone vecchia Molfetta: è posizionato sul ciglio sinistro di una strada sterrata raggiungibile dalla SP 23. E’ privo dello stemma di Corato, anche se usurati sono ben visibili lo stemma asburgico e l’iscrizione (manca la parte destra), gran parte del tettuccio è crollata mentre è ancora presente la cornicetta superiore.

Titolo strada esterna Bracco: si trova all’interno di un terreno privato ad una sessantina di metri dalla strada principale. Probabilmente tale posizione è da attribuire a causa di una deviazione della strada avvenuta in passato. Il Titolo è privo sia dello stemma di Corato che dell’epigrafe, mentre lo stemma asburgico è presente ma risulta molto abraso e annerito, il tettuccio a cuspide è mancante.

 ALTRI TITOLI.  Nel 1905 tre periti demaniali, basandosi su un censimento del 1753, pubblicarono una “Istruttoria sui demani comunali di Corato” e censirono la posizione di 8 Titoli (quanti erano presenti nel 1753), ed erano così disposti:

Titolo 1 sulla strada per Canosa (corrisponde alla SP30);

Titolo 2 sulla strada per Andria (rinominata SC Boccotero);

Titolo 3 sulla strada per Barletta (corrisponde alla SP 168);

Titolo 4 sulla strada per Trani (corrisponde a via Giappone);

Titolo 5 sulla strada per Bisceglie (corrisponde a via Mangilli);

Titolo 6 sulla strada per Molfetta (corrisponde alla vecchia Molfetta);

Titolo 7 sulla strada per Ruvo (corrisponde alla strada est. Bracco);

Titolo 8 sulla strada per Spinazzola (rinominata via Castel del Monte).

Di questi titoli due ad oggi risultano scomparsi, quello sulla strada per Barletta (Titolo 3) e l’altro in direzione Spinazzola (Titolo 8) ma grazie a delle testimonianze e foto è stato possibile individuare la loro esatta posizione.

Titolo SP 160: la foto più recente, e l’unica conosciuta fu pubblicata nel 1984 subito dopo la sua scomparsa. Era collocato a destra della vecchia strada per Barletta. Le notizie raccolte all’epoca, documentano che fu rimosso nel 1985 perché fu reso pericolante a causa del furto dello stemma asburgico. Oggi nel luogo dov’era sono rimasti dei cumuli di conci.

Titolo via Castel del Monte: di questo non è stato ritrovato alcun documento fotografico, mentre testimonianze raccontano che fu demolito nel 1961 durante i lavori di costruzione della struttura denominata Oasi di Nazareth. Il Titolo si doveva trovare probabilmente proprio a lato del piazzale di tale struttura, in corrispondenza di quello che doveva essere il margine esterno del Tratturo Regio Barletta-Grumo quasi a ridosso della strada che portava a Spinazzola.

L’ISCRIZIONE.  L’iscrizione che doveva essere presente su tutti i Titoli ad oggi è presente solo nei Titoli che si trovano sulla SC Boccotero e sulla strada esterna Serrone vecchia Molfetta e misura 1,57m di lunghezza per 51cm di altezza e 10cm di profondità. Entrambe le lastre hanno delle lacune nel testo (in latino), causate da dilavamenti e fratture, nella parte sinistra quella del Titolo sulla SC Boccotero e nella parte destra quella del Titolo sulla strada esterna Serrone vecchia Molfetta. Combinandole l’iscrizione si è potuta completare e ricostruire nella sua interezza.

Tradotta recita così:  Filippo III Re per grazia di Dio per l’Illustre don Alfonso Pimentel conte di Benavente e Vicerè del Regno di Napoli, su decreto del Supremo Senato a latere, rappresentante del fisco e Protonotario del Regio Patrimonio, a nome della Regia Curia, secondo una disposizione della Regia Camera, sono costituiti questi confini entro i quali non sia consentito ai Locati della Regia Dogana della Mena delle pecore di Puglia di pascolare e il delimitato territorio rimanga libero per i cittadini di Corato. Anno del Signore 1606-20-maggio. Domenico Tandoi, Marino Antonio Ferruccio, Francesco Ferruccio, Pietro Iacopo Buccio e Hercole Lanzalonga amministratori della città di Corato.

CONCLUSIONI.  I Titoli quindi furono edificati sulle strade che collegavano Corato con alcuni dei paesi limitrofi, per delimitare l’area del Ristretto Riservato all’agricoltura e per impedire ai locati cioè i pastori abruzzesi con le loro greggi di pecore, l’accesso a tale area da qualsiasi direzione provenissero, pertanto una forma di tutela della proprietà agricola a 360 gradi. I Titoli presenti nel territorio di Corato, testimoni silenziosi del passato, unici in Italia per forma, dimensione e fattura, sono anche i più belli della Puglia (come anche i 7 Titoli di confine presenti tra Bitonto e Bari), dal punto di vista architettonico esprimevano una struttura dai termini forbiti, asciutti, vigorosi, solenni ed eleganti. Sconosciute restano le maestranze che realizzarono tali opere, probabilmente si trattò di maestri muratori della Corato seicentesca.  Il 24 ottobre 2018 i Titoli sono stati dichiarati “bene di interesse culturale particolarmente importante e sottoposti a tutte le disposizioni                                                    di tutela contenute nel Decreto Legislativo 42/04” dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città Metropolitana di Bari.  (Bibiografie: Magnini G. – Soldano L. – Torelli E. – Pomarico E.)https://www.academia.edu/38831667/I_Titoli_che_salvarono_il_Ristretto_Riservato_all_agricoltura_di_Corato_dalle_mandrie_transumanti_nel_XVII_secolo_The_Titoli_that_saved_the_District_Reserved_to_agriculture_in_Corato_from_transhumant_herds_in_the_XVII_century